Ėric Cantona: spirito indomabile

Ci sono calciatori che giocano a calcio, sorridono alla telecamera e girano in Ferrari e poi ci sono quelli che giocano a calcio con un fuoco dentro, incapaci di essere indifferenti alle ingiustizie del Mondo. Ėric Cantona appartiene alla seconda categoria, quella degli spiriti indomabili, delle anime che non riesci a rinchiudere in un campo, in una maglia, in un ruolo. Francese, sì, ma con sangue sardo e catalano nelle vene, il nonno paterno nato a Ozieri, in provincia di Sassari, e i nonni materni fuggiti da Martorell durante la guerra civile spagnola per rifugiarsi a Marsiglia. Una biografia già di per sé segnata dalla determinazione, dal coraggio e dalla rabbia: tre parole che potrebbero descrivere anche la sua carriera.

Cantona è stato un giocatore unico. Seconda punta di talento puro, visione di gioco da regista e colpi da genio, ma anche un uomo con un fuoco dentro non sempre gestibile. Il leader carismatico del Manchester United, la voce ruvida di uno spogliatoio proletario, il simbolo di una città e di un calcio che non è così comune.

Aveva sete di gol, ma ancora più di verità e giustizia non ha mai avuto paura di gridarlo in faccia al mondo.

Nel gennaio del 1995, durante una partita contro il Crystal Palace, la sua storia smette di essere sportiva e diventa politica. Espulso per un fallo, Cantona esce dal campo tra gli insulti. Un tifoso, che poi si scoprirà essere un simpatizzante di estrema destra gli urla “vattene nel tuo paese” e lui, in risposta, si stacca da terra e lo colpisce con un calcio volante. Quel gesto lo condanna a otto mesi di squalifica e a ventimila sterline di multa, ma lo trasforma in un simbolo. Il calcio come reazione fisica al razzismo, alla violenza, all’arroganza. Quando poi, in conferenza stampa, si presenta in silenzio e pronuncia solo la frase “Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine” il mito è servito. Poetico e incomprensibile, anarchico e saggio, Cantona diventa il filosofo ribelle del calcio moderno.

Anni dopo dirà: “Ho detto che avrei dovuto colpirlo più forte. È stata una bellissima sensazione.” E aggiungerà che, quando seppe delle simpatie fasciste del tifoso, si convinse di aver fatto la cosa giusta. Non c’è mai pentimento nei suoi gesti, solo coerenza.

Dopo il ritiro, Cantona ha smesso di essere un calciatore ma non ha smesso di essere Cantona. Si è tuffato nel cinema come si tuffava su un pallone vagante: con passione e rischio. Attore in Elizabeth accanto a Cate Blanchett, in Le Deuxième souffle con Monica Bellucci, poi regista del cortometraggio Apporte-moi ton amour. Ma è con Il mio amico Eric di Ken Loach, nel 2009, che la leggenda si fonde col personaggio. Loach lo trasforma nell’amico immaginario di un postino di Manchester: non un fantasma, ma una guida morale, la voce che dice “credi in te stesso” a chi non ha più la forza di farlo. È il ruolo perfetto per lui, ironico, umano, solidale e ciò accade con una regista che lo ha scelto proprio per il suo lato più ardente, per affinità, perché anche Loach conosce quel fuoco.

Ma Cantona non si è mai accontentato di recitare: ha continuato a pensare, a parlare, a esporsi. Nel 2010 scrive al quotidiano Libération firmandosi “Ėric Cantona, cittadino impegnato” e invita i francesi a ritirare i soldi dalle banche: “È facile fare la rivoluzione oggi: basta togliere il potere alle banche.” Forse nessuno lo fa, ma il messaggio resta: la ribellione è possibile, anche solo come gesto simbolico. Poi, nel 2012, annuncia l’intenzione di candidarsi alle presidenziali francesi, chiedendo ai sindaci di sostenerlo. Non vincerà, ma la sua lettera resta un manifesto politico: “Sono un cittadino attento alla nostra epoca, alle chance che offre ai giovani, alle ingiustizie che genera.

Oggi, con barba bianca e camicia aperta, Cantona continua a parlare. Sempre da libero, sempre da sé stesso. È stato tra le prime voci a denunciare il doppio standard del calcio internazionale: “La FIFA e l’UEFA hanno sospeso la Russia in quattro giorni. Sono passati più di settecento giorni da quello che Amnesty chiama genocidio, e Israele gioca ancora. Perché questo doppio standard?

E poi, in un messaggio che circola ovunque: “Difendere i diritti dei palestinesi non significa essere pro-Hamas. Dire Free Palestine non è antisemitismo. Significa liberare un popolo da 75 anni di occupazione, dare ai bambini un futuro, porre fine all’apartheid.

Le sue parole, come sempre, dividono. Ma il punto è che Cantona non cerca consenso: cerca verità. È rimasto, come ai tempi del colletto alzato, un uomo che non abbassa mai la testa.

Forse per questo la sua figura resta magnetica, anche fuori dal calcio. Ha incarnato la rabbia e la poesia, la sfrontatezza e la coscienza. È stato un attore, un rivoluzionario, un filosofo del pallone e un cittadino del mondo. E anche se oggi la sua candidatura alla presidenza francese è quotata 101 a 1, lui resta l’unico a cui crederemmo davvero.

Perché Ėric Cantona è così: ribelle e poetico, arrogante e lucido, impulsivo e profondo. Uno che ha colpito un fascista con un calcio e poi ha recitato Jarry a teatro. Uno che, tra un gol e una frase sibillina, ci ha ricordato che la libertà, come l’arte, come il calcio: o è ribelle, o non è.

(pics www.aa.com.tr)

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